
INTERDIT: La Generazione Post-Covid e La Festa Come Atto di Resistenza
Intervista a Lorenzo Marino, Regista di Interdit
La cultura tekno è sempre stata sinonimo di libertà, creatività e autogestione. Ma cosa succede quando una forma di espressione viene etichettata come illegale e repressa dal governo? Come si evolvono gli artisti e le comunità che vi gravitano attorno?
Lorenzo Marino appartiene a quella generazione di giovani che hanno visto sfumare la propria adolescenza negli anni del Covid. Privati di momenti di aggregazione, libertà e scoperta, quest* ragazz* hanno cercato nuove forme di espressione e connessione una volta che l’emergenza è finita. È proprio in questo contesto che Lorenzo ha incontrato la cultura tekno: un mondo fatto di collettività, autogestione e festa, lontano dalle regole imposte e dai confini convenzionali.
Un universo “fatato” di rave e street parade che per molti giovani rappresenta una rinascita, una rivendicazione del diritto a esistere e ballare. Ma questa scoperta, pur affascinante e liberatoria, è solo l’ultimo capitolo di una storia lunga e turbolenta, costruita da generazioni di crew che, negli ultimi trent’anni, hanno affrontato repressione, sgomberi e difficoltà pur di preservare questa eredità culturale.

Lorenzo, con il suo documentario Interdit, ci porta all’interno di questa realtà, raccontando le esperienze vissute oggi dai giovani che si avvicinano a questo mondo. Un viaggio che non può ignorare la complessità del passato, ma che guarda al presente con occhi nuovi, dando voce a chi, come Insane Teknology, ha scelto di adattarsi e spostare la propria arte verso contesti più “legali” per continuare a creare e diffondere la musica tekno.
Il 17 aprile 2025 Granata di Bologna ospiterà SHOWCASE, una serata imperdibile dedicata alla cultura underground e alla libertà di espressione. L’evento vedrà la presentazione del nostro progetto SUM, che ha preso forma sia in vinile che in digitale, a testimonianza della sua doppia anima tra tradizione e innovazione. A seguire, la proiezione del documentario di Lorenzo Marino e un talk generazionale che metterà a confronto diverse voci sul tema della repressione e della resistenza culturale. In un momento storico in cui il decreto anti-rave del governo Meloni ha complicato ulteriormente la scena delle feste libere, Interdit offre una visione interna, destrutturata e autentica di un mondo che non si arrende.
La serata si concluderà con un DJ set a sorpresa, tutto ciò che non ci si aspetta dai nostri artisti In vista di questo appuntamento, abbiamo intervistato Lorenzo Marino per approfondire la genesi del suo film e il suo sguardo sul movimento.
Hanno visto sfumare la propria adolescenza negli anni del Covid, privati di momenti di aggregazione, libertà e scoperta. Questi ragazzi hanno cercato nuove forme di espressione e connessione una volta che l’emergenza è finita. E, se non sbaglio, è proprio in questo contesto che hai incontrato la cultura tekno, quindi successivamente al Covid. Un mondo fatto di collettività, autogestione e festa, lontano dalle regole imposte dai contesti convenzionali.
Interdit offre una visione interna, destrutturata e autentica di un mondo che non si arrende. Com’è nata questa tua esigenza di collegarti alla scena tekno in questo caso?
Allora, diciamo che tutto comincia subito dopo il Covid. Organizzavamo questi eventi in piazza Scaravilli a Bologna, in cui musicisti e dj alternavano l’antropologia di strada. A volte facevamo DJ set, altre volte jam session, e sostanzialmente si trattava di piccole occupazioni in piazza. Noi ci andavamo con gli artisti, portavamo il sound, le casse—piccole, in realtà, perché non c’era mai stato un vero sound system. Era più un ritrovo, un’aggregazione spontanea di persone in piazza.
Che poi è anche il punto di inizio del documentario. Perché io penso—e anche tutti gli altri ragazzi che montavano con noi lo pensano—che la piazza, anche a livello simbolico, sia proprio l’origine, il punto di aggregazione per eccellenza di qualsiasi forma di socialità all’interno della città.
Poi, dalla piazza, ho fatto una sorta di percorso inverso per arrivare alle feste. Perché dalla piazza mi sono approcciato al mondo delle street (parade nrd) e poi da lì ho cominciato a frequentare tutto l’ambiente delle feste.
Quindi ecco, forse fare questo percorso al contrario mi è servito per capire meglio tante dinamiche. Perché spesso ci si approccia alle feste da molto piccoli e non si hanno gli strumenti per valutare come gestirsi, come autogestirsi, come autoregolarsi in un ambiente come quello di una festa.
Uno spazio che dovrebbe essere liberato ma non è mai veramente liberato.

Secondo te, com’è stato prendere queste risposte dal mondo della tekno, soprattutto avendo fatto un percorso inverso? Sei arrivato più grande, più consapevole, rispetto a un ragazzino di 16-14 anni che va alla sua prima festa, che può essere un piccolo evento di 100-200 persone o un festone in Francia. Com’è stato acquisire questa eredità?
Secondo me la chiave di svolta di tutto—parlo per me personalmente—è stato partecipare prima alle assemblee e poi andare alle feste. Se si va a una festa consapevoli che quello che si sta facendo è un atto politico, cambia tutto.
Cioè, non si sta andando solo a ballare o a sballarsi, ma in primis si sta rivendicando una forma di libertà che crediamo di avere il diritto di esprimere. Anche solo partecipare alle assemblee con collettivi che organizzano queste iniziative con un’idea chiara, non solo per puro divertimento ma come una vera forma di protesta, cambia tutto. Ti fa vivere la festa come un momento di ribellione.
Perché se vuoi solo sballarti, puoi andare ovunque, in un locale, pagare e divertirti. Se invece vai a un free party, ci vai perché stai manifestando il tuo dissenso, stai reclamando uno spazio di libertà.

Sì, questo è vero. E nel tuo documentario si percepisce un’urgenza comunicativa. Si vede che hai sentito la necessità di esprimere un’opinione su quello che è successo dopo il Witchtek, su questa repressione brutale che ha negato uno spazio libero dove esprimersi musicalmente. Che fosse ballare sotto un muro per due giorni o semplicemente avere un luogo per condividere la musica. Hai sentito questa esigenza e l’hai tradotta nel documentario?
Sì, perché ci sono due percorsi paralleli che però in alcuni punti si intrecciano. Da un lato c’è la questione della comunicazione: come raccontare al mondo cosa succede dentro una festa o in spazi come questi. Dall’altro lato c’è l’azione effettiva, il modo in cui si organizza una festa, come ci si riappropria di uno spazio.
E qui sta la differenza: c’è chi lo fa con consapevolezza, chi meno. Tutto parte dal motivo per cui lo si fa. Noi occupiamo una piazza perché sentiamo di avere il diritto di scendere in piazza—che è un luogo creato per la socialità—e di viverlo con la musica, con l’arte, con la festa.
Ovviamente, come in ogni cosa, esiste anche il marcio. Ci sono persone che sfruttano gli ideali del movimento per un proprio tornaconto, per farci lucro. E questo è un problema.
Tornando un attimo sulla questione della comunicazione, perché secondo me è un tema molto attuale e sperimentale. Nel mondo delle feste, le fotocamere, i telefoni, i social sono sempre stati visti con diffidenza. Non vietati, ma comunque malvisti. Perché portare una fotocamera in uno spazio libero e autogestito può togliere libertà agli altri partecipanti, per una questione di sicurezza, privacy e anche per il rischio legale.
Penso, però, che dopo il Witchtek, con il decreto Meloni e tutta questa ondata di repressione, il movimento abbia in parte cambiato atteggiamento.
C’è stato un punto di rottura in cui si è deciso di non stare più solo nascosti nei boschi a fare festa, ma di scendere nelle piazze, alla luce del sole, dove passano famiglie, bambini, persone di ogni tipo. Da quel momento è nata l’esigenza di una narrazione interna, di una comunicazione che non fosse solo quella strumentalizzata dai media o dai giornali.
Perché se lasciamo che siano solo loro a raccontare queste realtà, il risultato è sempre distorto. Invece, mostrando direttamente cosa succede, possiamo far vedere che c’è un pensiero dietro, una cultura, una lotta.
Il documentario descrive questo periodo storico. Infatti, non parla della storia dei rave, ma di questo momento attuale che stiamo vivendo, da dopo il Covid fino ad adesso.

Nel manifesto di lancio di Interdit si parlava di ballare come atto politico. Quanto pensi che oggi sia importante riaffermare il concetto di libertà attraverso forme di aggregazione spontanea e non convenzionali?
Ok, mi ricollego un po’ a quello che dicevo prima. Non è che andare a ballare in un locale sia sbagliato—non voglio che passi questo messaggio, che adesso tutto si divida in “è bello solo il free party e il resto fa schifo”. Il punto è trovare un equilibrio.
Ci sono tanti free party che in realtà non sono davvero liberi, e ci sono tanti locali che organizzano serate con molta testa, creando spazi che funzionano. Io penso che, in primis, venga il ballare sotto un muro di casse. Certo, è diverso: ballare davanti a un muro con i bodyguard dietro è un conto, ballare in mezzo a un monte senza nessuno che ti rompe le palle è un altro discorso.
Uno non esclude l’altro, secondo me. Rimane comunque un discorso delicato.
l film è diviso in tre capitoli, e sembrano molto chiari: il capitolo delle feste di strada—quindi Piazza Scaravilli e il Movimento MAL—poi la migrazione verso Smash Repression, e infine i grandi raduni Free Tekno dove magari hai partecipato, e le risposte che avete dato a questa repressione. Io l’ho suddiviso più o meno così. È un ragionamento corretto? E, se sì, quale delle tre parti ti ha coinvolto di più a livello personale?
Sì, è giusta la suddivisione netta dei tre capitoli. È un percorso: si parte da qualcosa di molto soft, come un live acustico in piazza, fino ad arrivare a un Teknival o comunque a grandi festoni dove, oggettivamente, la musica cambia.
Questa scelta è stata fatta sia a livello di significato che a livello narrativo e stilistico. Noi ci siamo immaginati un accompagnamento per un potenziale spettatore che non fa parte del movimento e che quindi non conosce queste dinamiche. Partire dalla piazza, da un concerto di una band, ti porta pian piano verso la techno e il muro di casse, che è un ambiente più di nicchia forse. Quindi, è un percorso dolce che parte dalla piazza e arriva fino al festone.

Passiamo ora all’intervista che avete fatto a Insane Teknology e Mad Alien, in cui raccontano di come stanno cercando di adattare la loro musica a contesti più legali, lasciando un po’ il mondo dei free party per evitare la repressione a cui sono soggetti. Personalmente, cosa ne pensi di questa scelta? Nel documentario c’è una visione molto oggettiva della questione, mostrando entrambi i lati. Pensi che sia un compromesso necessario o una forma di resistenza?
Parto col dire che uno dei principi fondamentali dei free party è il non avere un atteggiamento giudicante verso gli altri. Io non sono un produttore, non ho mai suonato in un locale, quindi la prima cosa che devo fare è abbandonare qualsiasi pregiudizio nei confronti di chi fa musica o lavora in questo ambiente.
Se una persona ha suonato tutta la vita nei free e poi si ritrova a suonare nei locali, chi sono io per giudicare? C’è chi lo fa per guadagnarci in modo eccessivo, c’è chi lo fa perché è il suo lavoro e deve campare, c’è chi seleziona attentamente i locali in cui suonare. Sta al singolo produttore o DJ capire le sue motivazioni.
Io stesso, che ho realizzato un documentario su questo mondo, lavoro anche per locali, faccio video per locali, mi occupo di altro per vivere. Non posso campare d’aria, purtroppo. Quindi, ben venga se una persona riesce a trasformare la sua passione in un lavoro.
L’importante, come dico sempre con i miei amici, è non dimenticare da dove veniamo. I valori che ci portiamo dietro devono restare punti di riferimento per tutto quello che facciamo.

Avete intenzione di distribuire il documentario oltre le proiezioni locali? Ho visto che state facendo un tour e che avete iniziato a distribuirlo con OpenDDB.
Sì, OpenDDB è una piattaforma che si occupa di distribuzione dal basso. Inizialmente, il piano era semplicemente caricarlo su internet e basta. Poi, su suggerimento di compagni e persone che fanno parte del movimento e si occupano di distribuzione indipendente, abbiamo deciso di dargli una spinta dal basso. E ci è piaciuta questa idea, perché il documentario stesso parla di una realtà che nasce dal basso.
Inizialmente abbiamo voluto evitare una distribuzione tradizionale tramite cinema o circuiti più istituzionalizzati. Abbiamo preferito partire dai centri sociali, da spazi autogestiti, da luoghi che garantiscono più libertà rispetto a una sala dove devi pagare un biglietto d’ingresso. Questo per noi era fondamentale: chiudere un cerchio coerente con il messaggio del documentario.
Ora, dopo tante proiezioni, stiamo valutando anche una distribuzione in streaming e abbiamo iniziato a distribuirlo in alcune sale. Anche perché l’obiettivo iniziale del documentario non era solo quello di essere visto da chi già fa parte del movimento, ma di uscire dalla bolla e provare a raggiungere anche un pubblico più ampio. Proprio come hanno fatto le street parade.
Parlando di uscire dalla bolla, ora che il documentario è stato visto anche da persone esterne al mondo dei rave, quali reazioni speri di suscitare nel pubblico più ampio?
In realtà, non ho nessuna pretesa di cambiare radicalmente l’opinione delle persone. Non penso che qualcuno che non ha mai partecipato a un free party vedrà il documentario e, improvvisamente, dirà: “Ah, ma allora sono tutti bravissimi ragazzi!”. No, non è questo il punto.
L’obiettivo è abbattere i pregiudizi. Togliere quella narrazione tossica per cui chi frequenta i rave sarebbe solo un criminale. No, siamo persone normalissime, che vogliono vivere la musica e la libertà in un modo che magari non è convenzionale, ma che non fa male a nessuno.
Quindi, se anche solo una persona, guardando il documentario, smette di vedere i free party con quell’ottica demonizzante, per me è già un successo. Nessuno vuole fare propaganda o convincere qualcuno. Si tratta solo di raccontare quello che succede in modo onesto e coerente.

Avete incontrato ostacoli in fase di produzione e post-produzione?
Sì, assolutamente. Il documentario ha richiesto circa un anno e mezzo di lavoro. Il montaggio è stato la parte più difficile
Tecnicamente, non lo definirei un “film” in senso stretto. Ma il punto è che lo abbiamo realizzato quasi a budget zero.
Le spese più grandi sono state gli spostamenti, più che la produzione vera e propria. Abbiamo fatto qualche noleggio di lenti e attrezzature, ma la maggior parte del lavoro è stata possibile grazie a una rete di collaborazioni spontanee.
Abbiamo coinvolto tanti ragazzi che avevano voglia di partecipare, anche dalla Francia. Il documentario è stato possibile grazie alla collettività, e questa è la cosa più bella: nessuno è stato pagato, tutti hanno dato il loro contributo per passione.
C’è chi ha scattato foto, chi ha curato le grafiche, chi ha lavorato sulle animazioni in 3D. È stata una sinergia bellissima. Anche i social, in questo caso, sono stati utilissimi per connetterci con persone che hanno voluto collaborare.
Quanto è stato importante il contributo degli altri artisti partecipanti per la realizzazione di questo documentario?
Fondamentale. Senza il contributo degli altri, questo documentario non sarebbe mai esistito.
Ed è bello, perché riflette proprio lo spirito delle feste free: una festa non la monta una o due persone, la monta la collettività. Un’organizzazione fatta di tanti gruppi che collaborano.
Lo stesso vale per il documentario: io l’ho coordinato, ma dentro ci sono tantissime persone che hanno dato un pezzo di sé. È un lavoro collettivo, proprio come il mondo che racconta.

Pensi che documentari come il tuo possano contribuire a cambiare la percezione pubblica dei free party e delle feste libere?
Assolutamente sì. Non voglio dire che questo documentario cambierà tutto, ma credo che la comunicazione sia la chiave per qualsiasi cambiamento culturale.
E la comunicazione può avvenire in tanti modi: con documentari, film, libri, articoli, ma anche con la musica stessa. Sono questi strumenti che, piano piano, possono portare a una rivoluzione.
Se vogliamo cambiare la percezione che la gente ha di questo mondo, dobbiamo mostrarlo per quello che è, senza filtri, senza strumentalizzazioni. Solo così si possono abbattere i pregiudizi.
Oggi le informazioni viaggiano su Instagram, su TikTok… I giovani non leggono più gli articoli di giornale, che spesso non li interessano. Quindi pensi che per comunicare davvero sia necessario utilizzare quei canali e quel linguaggio più diretto e accessibile?
Se vogliamo far arrivare un messaggio alle nuove generazioni, dobbiamo usare i loro strumenti di comunicazione. Possiamo anche scrivere il miglior articolo del mondo, ma se nessuno lo legge, a cosa serve?
Dobbiamo creare contenuti che siano fruibili sulle piattaforme che i ragazzi utilizzano ogni giorno. Non vuol dire semplificare il messaggio o renderlo banale, ma trovare il modo giusto per comunicarlo. Video, reel, documentari brevi, grafiche… Sono tutti strumenti potentissimi per far passare un concetto senza annoiare chi guarda.
L’informazione deve evolversi con il pubblico, altrimenti rischia di restare chiusa in una nicchia.
Hai già nuovi progetti in mente dopo questo documentario?
Ah, minchia, questa domanda… (ride)
A dire il vero, fare un altro documentario subito sarebbe troppo sbatti. È stato un lavoro lungo e impegnativo, quindi ora mi sto concentrando su altre cose.
Però sì, c’è un progetto nuovo a cui sto lavorando. Insieme a un gruppo di amici, abbiamo aperto uno studio che si chiama Cripta. L’idea è creare un network tra i giovani artisti che sono a Bologna e provare a ricreare lo stesso spirito collaborativo che avevamo nelle piazze, ma in un contesto più strutturato, più orientato alla produzione video e multimediale.
Abbiamo scritto sul profilo una frase che ci rappresenta: “Sottoterra, perché i piani alti non ci piacciono”. Il nome Cripta viene proprio da questo concetto: crediamo che l’arte vera nasca dal basso, non da chi ha già il potere o i soldi.
L’arte nasce dall’artista squattrinato che ha idee, ma non i mezzi per mostrarle al mondo. Noi vogliamo creare uno spazio dove le persone possano lavorare insieme, sperimentare, senza bisogno di grandi finanziamenti o di padrini che dicano cosa fare. Anche in uno scantinato, se hai un’idea forte, puoi creare cose incredibili.
Ora siamo solo all’inizio, ma vogliamo farlo crescere. Perché l’esperienza è tutto: solo lavorando sul campo si può arrivare a realizzare qualcosa di concreto.
L’evento del 17 aprile 2025 al Granata di Bologna sarà l’occasione per immergersi in una narrazione autentica della scena underground, tra musica, immagini e confronto diretto. La presentazione di SUM, con i suoi progetti in vinile e digitale, insieme alla proiezione del documentario di Lorenzo Marino e al talk generazionale, offrirà uno spazio di riflessione su tematiche fondamentali come la libertà di espressione e le forme di resistenza culturale.
Più che una semplice serata, sarà un momento di condivisione e scambio, un’opportunità per abbattere stereotipi e vivere la cultura underground in tutta la sua forza. E ovviamente, non mancherà la musica: il DJ set a sorpresa chiuderà l’evento nel modo più naturale possibile, facendo parlare il linguaggio universale del suono e del movimento.
Ci vediamo il 17 aprile al Granata!
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